Nel panorama della complessa e per alcuni versi preoccupante situazione nazionale, c’è un caso di clamorosa scomparsa e omissione. Non si tratta delle vicende, attuali o riproposte da nuovi elementi, relative alla cronaca nera. In tal caso saremmo sopraffatti (su Tv, giornali, social) da dibattiti e approfondimenti di variegati livelli e approcci, dal peggior voyeurismo alle più composte analisi socio-culturali.
La clamorosa vicenda a cui ci riferiamo non determina alcuna curiosità popolare e tanto meno alcun reale dibattito nel Paese: né culturale, né politico e neppure di bassa cronaca di approfondimento (né tantomeno un’immeritata morbosità). La scomparsa, duplice oltretutto, è quella del CdA e del presidente del Consiglio nazionale delle ricerche, il più importante e grande Ente di ricerca del Paese, che di conseguenza dallo scorso 27 maggio non ha più il proprio rappresentante legale (funzione assegnata al presidente dalla Legge ed essenziale per lo svolgimento delle più rilevanti attività del Cnr).
Questa scomparsa però non è dovuta ad un evento imprevedibile o ad un catastrofico collassamento del sistema Cnr (che invece è solido e di eccellente valore internazionale), ma banalmente ad una gravissima omissione (duplice anche questa).
Infatti, da una parte, i tre membri scaduti del CdA – quelli indicati per legge dalla Conferenza Stato-Regioni, CRUI e Confindustria – potevano essere rinominati da vari mesi, in quanto inviate nei cassetti del ministero le terne necessarie da cui la ministra avrebbe potuto/dovuto selezionare e nominare i prescelti.
E analogamente per il nuovo presidente, la legge prevederebbe: 1) la presenza di un Comitato di selezione (già nominato alla fine del 2024); 2) un meccanismo di bando per la individuazione dei candidati da cui il Comitato di selezione dovrebbe scegliere la cinquina sottoponendola alla valutazione del ministro.
Questo bando non è mai stato partorito dal ministero. Eppure la scadenza del presidente era nota fin dalla sua nomina (durata quattro anni).
Lo scorso 26 maggio in anteprima su Left scrivevamo quindi, valutando questo stallo, che la ministra Bernini stava compiendo l’ultimo passo per giungere al commissariamento del Consiglio nazionale delle ricerche.
Ad oggi invece questo commissariamento non è ancora stato adottato: forse per l’impossibilità di produrre ragioni legittime necessarie alla sua determinazione oppure alla ricerca di queste ultime (avviando per esempio una nuova riforma del Cnr come possibile alibi).
La cosa che ormai appare certa è comunque la volontà di cambiare governance al sistema Cnr e di ridurne l’autonomia restringendo i già esigui margini di autodeterminazione degli Organi di questa comunità scientifica. Stravolgendo così i principi costituzionali di garanzia all’autonomia della scienza.
Si tratta però di comprendere come possa tutto questo passare sotto la più assoluta indifferenza. Come se le sorti della ricerca pubblica nazionale riguardassero solo i ricercatori e i lavoratori del Cnr.
Come se gli studi che mettono in relazione la crescita del PIL di un Paese alla percentuale di investimento che quel Paese destina alla ricerca, non fossero noti e stabilissero un vincolo ineludibile.
Come se non si concepisse quanto rilevanti siano scienza, ricerca, cultura per lo sviluppo adeguato delle nostre infrastrutture sociali e produttive.
Si assiste, seppure in una versione italiana minimalista e di imbarazzata cautela, alla messa in soggezione della maggiore acquisizione che la storia dell’umanità è stata capace di produrre: il sapere.
Ossia quella capacità di costruzione delle conoscenze approfondite e accurate che ci permettono di fornire la più adeguata interpretazione (di volta in volta in evoluzione) del mondo naturale, sociale e cognitivo.
Questo tentativo di emarginazione e per certi versi di mortificazione del paradigma della conoscenza, emerge come una tendenza frutto dell’insofferenza verso la complessità e le sue articolate e parziali risoluzioni e si trasforma in una politica che strumentalmente cavalca questa insofferenza e disagio.
Una tendenza che travalica gli ambiti nazionali e diventa a sua volta paradigma di contrasto dei saperi come valori dominanti rispetto alle opinioni e alle soggettività delle scorciatoie falsamente risolutive.
Uno stravolgimento che dovrebbe interrogare l’opinione pubblica più ampia e avveduta. Invece le due indifferenze di cui parlavamo sopra, quella popolare e quella di analisi critica dei soggetti preposti, si alimentano e si rafforzano reciprocamente.
Per questo il caso Cnr diventa un caso paradigmatico, su cui accendere quella poca attenta riflessione che ancora possiamo esercitare.
Avremmo dovuto assistere a prime pagine dei giornali e a titoli dei TG sulla vicenda Cnr che invece ha visto qualche trafiletto, nelle pagine interne ispirate da qualche giornalista volenteroso e illuminato.
Il Consiglio nazionale delle ricerche non è un problema dei ricercatori e lavoratori del Cnr o del personale precario che vi opera (e a cui dovrebbe essere riconosciuto il merito della professionalità impiegata).
Così come la ricerca e la scienza del nostro Paese non riguardano solo gli scienziati italiani. Interrogano la società nel suo complesso e il futuro su cui intende procedere.
L’autore: Rino Falcone, già direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche